Cellule della pelle per curare la sclerosi multipla. È questa la prospettiva, a lungo termine, che apre un esperimento rivoluzionario condotto da un gruppo di ricercatori dell’Istituto di Neurologia sperimentale dell’Ospedale San Raffaele, coordinati da Gianvito Martino e pubblicato dalla rivista scientifica Nature Communications. «Abbiamo utilizzato la procedura di riprogrammazione che è valsa il Nobel a Yamanaka l’anno scorso e abbiamo trasformato cellule della pelle di topo prima in embrionali e poi in staminali neurali - spiega Gianvito Martino -. Infine le abbiamo iniettate direttamente nel liquor del sistema nervoso centrale dei topi, in modo da mimare quella che potrebbe essere una puntura lombare in un uomo come ipotetica via di somministrazione».
IL MECCANISMO D’AZIONE - «Le cellule hanno “capito” da sole dove si trovava l’infiammazione e, una volta arrivate in loco, hanno cominciato a secernere una molecola chiamata LIF (Leukemya Inhibitor Factor), un fattore neurotrofico già noto per la sua capacità di proteggere in particolare le cellule che producono mielina (la mielina è la sostanza di rivestimento delle fibre nervose che rende possibile la trasmissione degli impulsi nervosi e il suo danneggiamento è alla base della sclerosi multipla)». Il LIF ha da un parte ha protetto gli oligodendrociti, cioè le cellule nervose che producono la mielina e, dall’altro, ha indotto a maturare i precursori degli oligodendrociti, procurando, di fatto la disponibilità di nuova mielina. «L’azione riparativa del Lif - puntualizza Martino - ha impedito il progredire dell’infiammazione, perché il tessuto danneggiato dall’infiammazione richiama altre cellule infiammatorie, è così è stato disinnescato un circolo vizioso e negli animali è stato infatti riscontrato un miglioramento».
LA «RIVOLUZIONE» - «Il fatto di poter disporre di cellule autologhe, cioè dello stesso paziente (senza quindi problemi di rigetto) e facilmente prelevabili (come quelle della cute), rappresenta un enorme vantaggio - sottolinea il neurologo -, ma la maggiore carica innovativa di questo trattamento è rappresentata dal fatto che queste cellule hanno svolto in sostanza una terapia farmacologica locale, mentre finora il dogma del trapianto di staminali si è basato sul concetto e sull’obbiettivo di trasformare le cellula staminali nella cellula matura desiderata (per esempio un neurone) per poi iniettarla al fine di sostituire le cellule malate dello stesso tipo. Inoltre - continua Martino - il nostro lavoro ha confermato il potere terapeutico delle cellule riprogrammate anche nelle malattie neurologiche infiammatorie, evento che non era facile da prevedere perché non si sapeva ancora se la riprogrammazione in laboratorio avrebbe potuto di per sé modificare le potenziali caratteristiche terapeutiche di queste cellule rendendole, in un certo senso, più ‘fragili’ e quindi meno performanti perché più suscettibili ad essere danneggiate loro stesse dal processo infiammatorio».
PROSPETTIVE - Oltre che bloccare la progressione della sclerosi multipla, queste cellule possono anche riparare i danni già fatti dalla malattia? «Se c’è un danno alla mielina ma il nervo, o meglio l’assone (cioè la sua lunga fibra che trasmette gli impulsi), non è ancora compromesso definitivamente, questo sistema può avere la capacità di riparare i danni alla mielina. Se invece il neurone è già gravemente danneggiato non può essere sostituito. Quindi penso che possa essere vista come una terapia preventiva nei confronti di una ulteriore progressione della malattia».
RISCHI - Questa strategia potrebbe avere effetti collaterali? «Abbiamo controllato fino a sei mesi dall’impianto e non abbiamo riscontrato né sviluppo tumorale né effetti collaterali di alcun tipo».
TEMPI - Quando è prevedibile una sperimentazione sull’uomo? «In teoria la via potrebbe essere breve se guardiamo al versante sperimentale clinico, cioè al letto del malato, visto che potremmo iniettare in modo relativamente semplice, con una puntura lombare, cellule facili da prelevare, cioè quelle della pelle, senza bisogno di immunosoppressione perché donatore e ricevente sono la stessa persona. In realtà l’attesa sarà determinata soprattutto dai progressi nelle procedure di ingegnerizzazione di queste cellule. Infatti il procedimento è particolarmente complesso ed esige per ora l’utilizzo di parecchi fattori di riprogrammazione, fra cui retrovirus e lentivirus, che hanno ancora bisogno di verifiche. Yamanaka, che ha inventato la tecnica, ritiene che ci vogliano ancora 5-10 anni perché queste cellule possano entrare nella pratica clinica. Tuttavia penso che si possa professare un certo ottimismo, perché la maggior parte dei laboratori del mondo che lavorano sulle staminali utilizzano ormai queste cellule e quindi c’è una grossa spinta al progresso».
COLLABORAZIONI E CONTRIBUTI - Lo studio dei ricercatori dell’Irccs San Raffaele di Milano ha goduto della collaborazione del gruppo di Elena Cattaneo, dell’Università degli Studi di Milano, ed è stato finanziato principalmente da National Multiple Sclerosis Society (NMSS) e da AISM – Associazione Italiana Sclerosi Multipla, con la sua Fondazione (FISM).